I cinesi contro H&M per il cotone raccolto dagli uiguri

I cinesi contro H&M per il cotone raccolto dagli uiguri

Scienza e ambiente

Lo scontro politico-diplomatico tra Occidente e Cina sulla repressione della minoranza uigura e gli abusi dei diritti umani nello Xinjiang si è esteso all’industria della moda.

Il gruppo svedese H&M è sotto attacco a Pechino per un comunicato nel quale si era detto «profondamente preoccupato» dai rapporti secondo i quali nello Xinjiang viene impiegato il lavoro forzato per la produzione del cotone.

La Cina fornisce il 22% del cotone mondiale e l’80% delle sue coltivazioni sono nello Xinjiang.

H&M è stata investita da una bomba a scoppio ritardato: il suo comunicato risale a un anno fa, scritto in inglese sul sito del gruppo dopo che erano stati diffusi rapporti sui campi di lavoro nello Xinjiang. L’azienda si impegnava a non utilizzare per i suoi capi di abbigliamento il cotone proveniente dalla regione nordoccidentale della Cina. La promessa era diretta al pubblico internazionale ed era passata inosservata.

Ma l’altra settimana l’Unione Europea ha imposto sanzioni a quattro alti dirigenti comunisti. Pechino ha reagito e la nota di H&M è stata «scoperta» e rilanciata da qualcuno su Weibo, il Twitter cinese. A quel punto è intervenuta la Lega della Gioventù comunista, invitando i suoi 90 milioni di iscritti a «reagire alla campagna di disinformazione e falsità sullo Xinjiang lanciata dall’Occidente».

Subito si sono mobilitati decine di migliaia di troll nazionalisti che presidiano il web statale. E senza spiegazioni i capi del marchio svedese sono stati rimossi dalle piattaforme di ecommerce cinesi Tmall, JD.com, Pinduoduo. Poi la catena di 520 negozi fisici del brand nella Repubblica popolare è scomparsa da Baidu, che gestisce la app cinese equivalente di Googlemaps.

Il fuoco si è allargato a Nike, che sulla sua pagina web aveva una dichiarazione simile a quella di H&M. Il rancore alimentato dalla propaganda del Partito comunista è da caccia alle streghe e le intimidazioni sono state estese ad altre industrie straniere, come Uniqlo, Adidas e Burberry. Si so- no schierati contro H&M, Nike e griffe collegate una trentina di testimonial pubblicitari cinesi, star del cine- ma e dello sport, che hanno ripudiato i loro contratti.

Il governo di Pechino nega di aver ordinato un boicottaggio commerciale, sostenendo che l’azione è partita spontaneamente dal popolo del web.

Concretamente il blocco delle licenze del Bci impedisce di comprare il cotone della Xinjiang ai membri dell’organizzazione non profit. Tra questi ci sono i colossi dell’abbigliamento mondiale, co- me la giapponese Fast Retailing (proprietaria di Uniqlo) o Inditex (che controlla, tra gli altri marchi, Zara) e noti marchi italiani come Diesel, Benetton e Ovs. Per molte di queste aziende un boicottaggio sul mercato cinese è un rischio e- norme. Per H&M la Cina è il quarto principale mercato, Inditex ha ben 2.318 centri produttivi in Cina, per Uniqlo, Nike e Adidas il mercato cinese rappresenta circa un quarto delle vendite.

Oltre alle iniziative di boicottaggio la Cina, secondo quanto spiegato in un editoriale non firmato sul Global Times, intende muoversi direttamente sulla Better Cotton Initiative: «Sollecitare la Better Cotton Initiative a ridefinire il cotone dello Xinjiang diventerà la nostra leva realistica per vincere la battaglia».

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