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2021, l’ultima moda? È quella circolare. E’ boom anche economico

Scienza e ambiente

Abiti di seconda mano, recupero di tessuti e produzioni green sono i nuovi protagonisti di un mondo, quello del fashion, caratterizzato da enormi sprechi. E potrebbero addirittura diventare il modello dominante: secondo il Circular Fashion Report 2020 il mercato della moda circolare ha un valore potenziale di 5mila miliardi di dollari, il 63% in più dell’industria della moda tradizionale. Insomma, mercatino second hand batte fast fashion 5 a 3.

Ad analizzare i dati che riguardano il trend della moda sostenibile è una ricerca condotta da Espresso Communication per Be Green Tannery, conceria di Solofra, in provincia di Avellino, in anteprima esclusiva per Wired. Un trend che sta conquistando sempre più convinti sostenitori: secondo una ricerca di Boston Consulting Group e Vestiaire Collective su 7mila intervistati di 6 paesi (Italia compresa) il mercato degli abiti usati potrebbe crescere del 15-20% entro 5 anni e già oggi il 31% degli intervistati dichiara di rivendere i capi che non usa più, attraverso i classici canali dei negozi second hand o le app dedicate (come Vinted, Depop o lo stesso Vestiaire Collective, senza dimenticare portali come Subito o eBay che fanno dell’usato in generale il loro cavallo di battaglia).

A guidare la riscossa dell’abbigliamento di seconda mano è la Generazione Z, vale a dire i nati tra il 1995 e il 2010. Secondo il Resale Report 2020 di Thread Up, per l’80% dei coetanei dell’attivista Greta Thunberg è normale comprare vestiti usati è normale, mentre il 90% si indirizza verso la seconda mano se vuole risparmiare. Accanto all’usato, caposaldo della sostenibilità nella moda (per cui vale più che mai il motto less is more, meno è meglio, e l’idea del riuso), cresce anche l’interesse per le produzioni green. Secondo la già citata analisi fatta da Boston Consulting Group e Vestiaire Collective, il 60% degli intervistati dichiara di sentirsi attratto da un marchio che si è prefissato obiettivi sostenibili.

(Foto: Pexels)

Dietro alla creazione di gonne, giacche e borsette si nasconde infatti un mondo di sprechi e, di conseguenza, di inquinamento che potrebbe essere evitato. Secondo una recente revisione scientifica pubblicata su Nature Reviews Earth and Environment, l’industria della moda (e in particolare quella della fast fashion prodotta in grandi quantità e con bassa qualità per le catene di abbigliamento low cost) consuma 79mila miliardi di litri d’acqua, produce 92 milioni di tonnellate di rifiuti ed è responsabile dell’8-10 per cento delle emissioni globali di CO2 (paliamo di circa 4-5 miliardi di tonnellate all’anno). Inoltre, la Ellen MacArthur Foundation stima che ogni anno si perdano circa 500 miliardi di dollari per indumenti che, indossati a malapena, non vengono né donati né riciclati e finiscono in discarica.

Tra i comportamenti virtuosi che possono essere messi in pratica per rendere la moda più amica dell’ambiente, oltre al mercato dell’usato, ci sono per esempio l’uso di fibre biodegradabili, biologiche o ottenute da materiali di scarto (un esempio è la plastica recuperata dagli oceani) per abbattere anche l’inquinamento da microplastiche e una produzione più efficiente che limiti l’uso di acqua ed energia. Dopo anni di ricerche e numerosi studi, abbiamo implementato un metodo di lavorazione che segue i principi della sostenibilità”, spiega per esempio Felice De Piano, fondatore della conceria Be Green Tannery che ha condotto l’analisi. “Il risultato è una diminuzione del tempo di produzione richiesto per la conciatura che passa da 36 a 24 ore, una riduzione dell’energia impiegata, 360 kW contro i classici 540, e una minore quantità di litri d’acqua necessari, 7mila in contrapposizione ai 10mila normalmente utilizzati”. Altri spunti green? Limitare i resi online lasciando il tempo a chi ha fatto l’acquisto di provarlo a casa e restituirlo subito al rider che l’ha consegnato e scegliere i servizi di noleggio abiti.

Fonte: Wired

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